Qualora dalla valutazione di impatto dovessero emergere rischiosità elevate il titolare dovrà consultare l’Autorità prima di iniziare il relativo trattamento.
Nel parere viene inoltre specificato che:
– i datori di lavoro devono sempre tenere conto dei principi fondamentali della protezione dei dati personali, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata
– i contenuti delle comunicazioni elettroniche effettuate presso i locali commerciali godono delle stesse tutele dei diritti fondamentali delle comunicazioni analogiche;
– il consenso è estremamente improbabile che costituisca una base giuridica per il trattamento dei dati personali sul posto di lavoro, a meno che i dipendenti possano rifiutare senza subirne conseguenze negative;
– l’esecuzione di un contratto e gli interessi legittimi possono talvolta essere invocati, a condizione che il trattamento sia strettamente necessario per uno scopo legittimo e conforme ai principi di proporzionalità e sussidiarietà;
– i dipendenti dovrebbero ricevere informazioni efficaci sul monitoraggio (geografico, rispettoso della riservatezza delle informazioni personali (data-oriented), o in relazione al tempo) che si svolge;
– qualsiasi trasferimento internazionale dei dati dei dipendenti dovrebbe avvenire solo qualora sia garantito un adeguato livello di protezione.
Viene posta particolare attenzione a quanto potrebbe essere considerato una sorta di monitoraggio a distanza effettuato dal datore di lavoro tramite l’uso delle nuove tecnologie (es. raccolta di dati relativi alla localizzazione WiFi, tracciabilità Bluetooth, analisi di metadati che rilevino stile di vita ed abitudini dell’interessato, ecc.). In tale ottica, il WP29 mette in guardia anche dall’eccessivo monitoraggio sui dipendenti, di fatto meno disponibili nell’informare il datore di lavoro da trattamenti illeciti o da altre irregolarità effettuati da posizioni apicali (anche nell’ottica anticorruttiva – c.d. whistleblowing).
Onde aiutare il datore di lavoro nell’implementazione del “test di proporzionalità” si immaginano diversi scenari comuni ad un rapporto tra datore di lavoro e posizione di subordinazione, di fatto evidenziando sempre che qualsiasi sia il trattamento effettuato, con qualsiasi tipo di tecnologia, lo stesso dovrebbe essere limitato a quanto effettivamente tali informazioni siano: necessarie, eque, proporzionate e trasparenti.
La mera esecuzione del contratto o l’adempimento degli obblighi giuridici potrebbero costituire infatti motivi legali eccessivamente “banali” o semplicistici per sostenere che il trattamento dei dati personali possa essere considerato adeguatamente valutato nell’ottica del “test di proporzionalità” di cui al GDPR. La posizione di subordinazione in capo al dipendente già di per sé stessa rende l’ottenimento del consenso da parte del datore di lavoro “minata” dal dubbio che da parte del dipendente sia stato vissuto più come un obbligo che una reale consapevole adesione.
Peraltro anche il legittimo interesse da parte del datore di lavoro non potrà essere considerato un’arma vincente sempre e comunque contro lo scudo del dipendente (rappresentato dal rispetto dei propri diritti e libertà fondamentali).
Il dipendente pertanto, dalla lettura del parere, ritengo potrebbe diventare sempre più un “partner” consapevole degli obiettivi del datore di lavoro magari nell’adottare nuove tecnologie, poiché da questi chiaramente e pienamente informato sul trattamento e sul monitoraggio dei propri dati personali, che dovrebbero essere ridotti al minimo, conservati per un periodo limitato e cancellati quando non più necessari. Il datore di lavoro dovrebbe infine evitare in ogni caso l’utilizzo indiscriminato di un processo decisionale automatizzato.
Di seguito si sintetizzano gli scenari ipotizzati nel parere nel quale sarebbe necessaria l’effettuazione di un “test di proporzionalità”.